L’anima dolce del Piemonte
- Roberto De Pascale
- 2 giorni fa
- Tempo di lettura: 4 min
Tra colline, nocciole e cioccolato nudo
C’è un punto, in Piemonte, dove il paesaggio comincia a rallentare.Le colline si fanno più morbide, il verde cambia sfumatura e l’aria sa di legna e nocciole tostate.È lì che inizia il mio viaggio, tra le strade che salgono da Alba fino a Cravanzana, dove tutto sembra muoversi con la stessa lentezza con cui matura un frutto.
«La nocciola non ha fretta», mi dice Patrizia Gabutti accogliendomi tra i suoi alberi.Il terreno è umido, le foglie scricchiolano sotto i piedi.Lei cammina piano, con il passo di chi conosce ogni curva del campo, e parla come se ogni parola dovesse essere sbucciata con cura.«Ogni pianta ha la sua storia. Mio padre le piantò una per una. Le vedeva crescere come figli.»

Le nocciole, qui, non sono semplici ingredienti: sono una lingua, un modo di restare fedeli a se stessi.La Tonda Gentile delle Langhe è una varietà antica, dal guscio chiaro e dal profumo pieno, che i Gabutti curano da generazioni.Patrizia le raccoglie a mano, le lascia asciugare lentamente, poi le tosta.Quando apre la porta del laboratorio, un’ondata di aroma mi investe: caldo, dolce, quasi carnale.«Vede?», mi dice sorridendo, «questo è il momento in cui il tempo si ferma.»
Restiamo un po’ in silenzio, guardando le nocciole che ruotano nei tamburi.Fuori, la Langa respira nel suo ritmo antico.In ogni paese si sente l’eco di una tradizione che non si lascia spazzare via: i filari di noccioli, i muretti a secco, le cascine con i tetti di coppi che il sole colora di miele.«Il segreto è rispettare la terra», aggiunge Patrizia. «Se la forzi, si vendica. Ma se la ascolti, ti ripaga con profumo e dolcezza.»

Mentre parla, prende una manciata di nocciole appena tostate e me le porge. Le osservo: piccole sfere dorate, perfette, come se la terra avesse trovato la sua forma ideale.Le assaggio. Hanno un sapore pulito, diretto, che ricorda il pane caldo e la legna arsa.Capisco allora che quel profumo che impregna l’aria non è solo tostatura: è memoria. È la storia di una famiglia, di una donna che ha scelto di restare dove tutto nasce, tra colline che cambiano colore ma non voce.
Mentre riprendo la strada verso Torino, il paesaggio cambia lentamente volto, il tramonto tinge i filari di rame.
Guido piano, con il finestrino abbassato, come per trattenere ancora un po’ quell’odore di nocciole e terra bagnata.
C’è qualcosa di perfetto, in quella lentezza: il tempo che non corre, la vita che si lascia vivere.Penso che la dolcezza, qui, non stia nel sapore ma nel ritmo.Nel modo in cui la Langa ti insegna ad ascoltare — prima la terra, poi te stesso.Le colline si spianano, i campi si alternano a fabbriche, la nebbia si abbassa come un velo.È un passaggio naturale, come se la lentezza contadina si trasformasse in eleganza urbana.Torino mi accoglie con il suo rigore, i portici, le vetrine, i passi discreti della gente.E con un profumo diverso: quello del cioccolato.
In via Monferrato, dietro una vetrina discreta, c’è il laboratorio di Spegis Cioccolato.Un piccolo spazio, ordinato, dove il tempo sembra scandito dal suono delle spatole d’acciaio sul marmo.Nel laboratorio, Alessandro Spegis lavora in silenzio, concentrato.Sul tavolo di marmo, la massa di cioccolato scorre come un nastro scuro e lucente.«Non abbiamo bisogno di carta dorata», mi dice mentre solleva una colata perfetta. «Il gianduiotto deve mostrarsi per quello che è: nudo, vero, sincero.»

Accanto a lui, Leonardo Buccolieri osserva ogni movimento con uno sguardo attento. È lui ad avermi invitato, qualche settimana fa, a visitare il laboratorio. «Venga, vedrà che qui il cioccolato non è solo un mestiere, è una filosofia», mi aveva detto al telefono con un tono gentile, curioso, quasi familiare.Ora lo ascolto mentre parla del progetto con orgoglio: «Abbiamo voluto creare qualcosa che raccontasse la nostra idea di autenticità. Niente orpelli, niente finzione. Solo materie prime e verità.»
Alessandro, intanto, continua a lavorare in silenzio. I suoi gesti sono lenti, precisi, quasi meditativi: ogni spatolata sul marmo ha un suono, un tempo, una temperatura.Il loro gianduiotto nudo è diventato un piccolo simbolo di sincerità.«Abbiamo tolto tutto ciò che era superfluo — l’involucro, l’effetto — e siamo tornati alla sostanza. È come riscoprire il gusto di una parola dimenticata», aggiunge Alessandro.
Sul banco, i cioccolatini appena formati brillano come piccoli specchi di bronzo.Li assaggio. Si sciolgono lentamente, rivelando note calde, tostate, con una profondità che sembra provenire da quella stessa terra dove, poche ore prima, raccoglievo le nocciole di Patrizia.Leonardo sorride: «Non si può fare cioccolato buono senza nocciole buone. È tutto collegato, no?»Annuisco. Lo so già, ma mi piace sentirlo dire da lui, con quella calma torinese che trasforma ogni concetto in un gesto misurato.
Nel loro laboratorio non c’è frenesia, ma precisione. Ogni movimento è pensato.Ogni pralina nasce come un piccolo atto di fede: nel sapore, nella materia, nella bellezza del fare bene.

Seduto accanto al bancone, osservo la città fuori.Torino ha il suo modo unico di raccontare la dolcezza: mai esibita, mai gridata.È una dolcezza che cammina sotto i portici, che si nasconde nei laboratori, che profuma le mani di chi impasta, fonde, mescola.La stessa dolcezza che nasce dalle colline, dal lavoro paziente di Patrizia, e che qui si trasforma in forma, eleganza, misura.
Due mondi che non si contraddicono, ma si completano.Tra Cravanzana e Torino, tra la nocciola e il cacao, si distende un filo invisibile fatto di rispetto, tempo e cura.Nel Piemonte, la dolcezza è una filosofia: un modo di vivere, di pensare, di restare fedeli alla materia e a se stessi.
Ripenso alle parole di Patrizia: “Le nocciole ci insegnano che non si può avere tutto subito.”E a quelle di Alessandro: “Il cioccolato deve mostrarsi nudo, come un’emozione sincera.”Due voci lontane ma affini, due artigiani che parlano la stessa lingua del tempo.
Quando esco in strada, Torino è già avvolta dalla sera.Le luci si riflettono sul Po, il profumo del cioccolato si mescola all’aria fredda e all’eco lontana di un tram.Penso che forse la vera anima dolce del Piemonte sia questa: un battito lento, condiviso, che unisce la terra alla città, la memoria all’innovazione, il gesto al sentimento.
E mentre mi allontano, con il sapore del cacao ancora in bocca, sento che quel viaggio — iniziato tra le nocciole di Patrizia e finito tra i gianduiotti nudi di Spegis — non racconta solo due storie.Racconta una regione intera.
Un Piemonte che sa ancora fermarsi, ascoltare e insegnare la cosa più semplice e più rara: che la dolcezza, quella vera, è una forma di verità.



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